La domenica del villaggio: l’abilità di Hitler, un finale perfetto di Cesare Pavese…
Dopo la inevitabile sosta elettorale, torna la rubrica domenicale del blog: tante (troppe) cose sono rimaste inevase, ma cercheremo, piano piano, di smaltirle. Date di scadenza, in effetti, per questo tipo di rubrica non ci sono…
Il Sole 24 ore di domenica 26 maggio, nell’inserto culturale, presentava la recensione, scritta dallo storico David Bidussa, di un libro che ancora l’eretico non ha letto, ma che non si può non segnalare: “Perchè i tedeschi, perchè gli ebrei? Uguaglianza, invidia e odio razziale. 1800-1933”, dello storico (ebreo) Gotz Aly (pagine 300, 32 euro, Einaudi Torino).
Storico stimolante, Aly: non a caso capace, in passato, di avere parole di ammirazione per il Welfare nazista (non certo per il nazismo in quanto tale: per la capacità del III Reich di risolvere il dramma della disoccupazione, garantendo al contempo agli operai benefit a loro sconosciuti fino all’avvento al potere del Fuhrer).
La tesi di fondo dello storico – dice Bidussa – è che Hitler e Goebbels ebbero successo (prima di andare al potere) “facendo leva sugli istinti culturali profondi dei tedeschi”. Bidussa conclude la sua recensione ricordando un comizio hitleriano del 1930 (ben prima di andare al potere, dunque): si era in pienissima crisi economica post Wall street crash, per assistere all’evento si pagava 1 marco (un biglietto del cinema costava 30 centesimi). C’erano 12mila posti a sedere da riempire:
“non uno rimase vuoto in ciascuna delle tre serate”.
Ma la disamina di Gotz Aly raggiunge il suo acmè nello scandaglio della psicologia tedesca dei primi anni Trenta (“Chi desideri conoscere il passato non può fare altro che immaginare le condizioni in cui si trovava ad agire chi viveva all’epoca ed i costumi mentali in quell’orizzonte temporale”, dice Aly nell’incipit del suo libro):
“è l’invidia, secondo Gotz Aly, a costituire il vero motore del processo che porta allo sterminio (pp. 231-232). Un motore potente che vince solo realizzando il suo obiettivo: distruggere la felicità altrui, impossessandosi della vita degli altri”.
Gli ebrei tedeschi avevano avuto, a partire soprattutto dall’emancipazione post-napoleonica, più successo degli altri; di più: l’avevano avuto CONTRO gli altri (secondo la propaganda nazista), bloccando l’ascensore sociale dei non ebrei.
Mischiate il tutto con la plurisecolare tradizione antisemita ed antigiudaica – soprattutto, ma non solo, cattolica -, ed il terribile miscuglio di odio culturale, religioso, sociale e appunto psicologico è servito. Con i risultati che la Storia ci ha consegnato.
Si parla spesso dei problemi dei giovani, dei preadolescenti, e del dramma dei loro genitori che non sanno più come porsi verso di loro, scomparso l’approccio duro, potremmo dire gaullista.
Come spesso i grandi poeti sanno fare, Cesare Pavese, nell’ormai lontanissimo 1935, aveva già visto (e pre-visto?) tutto. Con poche, piane, parole, nella poesia “Ulisse” riesce in modo davvero incisivo a dipingere la complessità del rapporto fra un padre (“un vecchio deluso, perchè ha fatto suo figlio troppo tardi”: chissà a che età, se pensiamo ai parametri dell’oggi…) ed il figlio preadolescente. La tortuosità del rapporto è resa con grande verità umana.
Riportiamo solo gli ultimi 9 versi (dalla raccolta di poesie “Lavorare stanca”, pubblicata la prima volta da Solaria nel 1936):
“Il ragazzo che torna tra poco, non prende più schiaffi.
Il ragazzo comincia ad essere giovane e scopre
ogni giorno qualcosa e non parla con nessuno.
Non c’è nulla per strada che non possa sapersi
stando a questa finestra. Ma il ragazzo cammina
tutto il giorno per strada. Non cerca ancor donne
e non gioca più in terra. Ogni volta ritorna.
Il ragazzo ha un suo modo di uscire di casa
che, chi resta, s’accorge di non poterci fare più nulla”.
Tutto bello: gli ultimi due versi, semplicemente straordinari. Da applausi, a scena aperta.
Ps A proposito di rubriche che ritornano dopo le fatiche elettorali, mercoledì ritorna anche il “mercoledì scolastico”, con una puntata dedicata alla difficoltà del bocciare.