Zibaldone: “Nebraska” e “A proposito di Davis”, due Americhe a confronto…
Due film arrivati di recente sugli schermi, ci presentano due panorami diversi degli States: “Nebraska”, di Alexander Payne, ci offre uno spaccato dell’America profonda, confezionata in un suggestivo bianco e nero; l’appena uscito “A proposito di Davis” dei fratelli Cohen, invece, ci squaderna uno spaccato della New York City del 1961, in particolare del Village.
“Nebraska” ha un happy ending (per quanto non holywoodiano), ma è un film percorso da una vena di amarezza continua e disperata: cinismo, grettezza, aridità morale e spirituale, indifferenza intrafamiliare (a parte il figlio verso il padre) la fanno da padroni.
Attenti a vincere un milione di dollari, dunque, nel Nebraska: ancora di più, a dire di averlo vinto, quando così non è!
Il lieto fine si concretizza semplicemente in un ritrovato momento di dignità da parte dell’anziano ed alcolizzato padre (magistrale Bruce Dern, nel ruolo che doveva essere di Gene Hackman o di Jack Nicholson). Tenendo presente che, dietro alle birre del padre, c’è anche l’elemento del reducismo: la Corea (1950-1953), nel caso di specie. Non esiste solo il reducismo post-Vietnam, ed il cinema ogni tanto fa bene a ricordarcelo.
Il tutto, nel monotono ed alienante paesaggio del Mid west USA (Nebraska ed anche Montana): lo stesso paesaggio straordinariamente messo in musica dal grande Bruce Springsteen, con la sua armonica e la sua chitarra più ispirate che mai.
I Cohen, invece, ci portano a New York City (con digressione a Chicago), in particolare in una “isola” antropologica della Grande mela, il Village (dove è morto Seymour Hoffman una settimana fa: riposi in pace); film urbano, anzi metropolitano, quello dei Cohen, che descrive le vicissitudini di un cantante di folk bravo ma non bravissimo, spazzato via dalla sua cronica tendenza a mettersi nei guai e dall’arrivo sulla scena del suo locale di riferimento del giovanissimo Bob Dylan, contro cui niente può il povero Davis (un versatile Oscar Isaac).
Come quando le Panzerdivisionen naziste invasero la Polonia, ed i polacchi risposero con la cavalleria schierata, di fronte all’avanzare dei tank del Terzo Reich: scontro impari, si converrà.
Fra le varie chiavi di lettura della pellicola, suggeriamo questa: l’aurea mediocritas contro il talento assoluto; come il povero Salieri contro il genio di Mozart. E non crediamo che sia stato un caso che il manager che decreta la fine delle illusioni di Davis (a Chicago), sia interpretato dallo straordinario F. Murray Abraham: che era, giustappunto, il Salieri nel capolavoro di Milos Forman!
Battuta cult (del jazzista drogato John Goodman, già visto ne “Il grande Lebowsky”, nel ruolo del giocatore di bowling ebreo), riferita al protagonista:
“Ah, tu sei un cantante folk? Pensavo tu fossi un musicista!”.
Film che ha un suo fascino, film da ascoltare, oltre che da vedere: non solo per le ballate folk, con esecuzioni integrali (è un film di musica, non musicale), anche per altro. Alzi la mano, per esempio, chi aveva mai sentito, in una sala cinematografica, così nitidamente un gatto fare le fusa come nell’incipit di questo ultimo gioiellino dei Cohen…
Ps Domani ci sarà un pezzo sul Sms, in attesa del Consiglio comunale di martedì. Se Farinetti lo permette, ovviamente.
Credo che il film dei Cohen indaghi molto sulla sulla solitudine e sulla presunzione. E’ un film molto cupo, la storia di Davis, musicista che scappa in continuazione dalla vita, dalle responsabilità di figli, dal salvare un gatto ferito, fa sempre la stessa scelta: la fuga, verso cosa? Verso la solitudine.
La chiave del film é nel pugno che l’uomo nell’ombra gli sferra, dopo che il giorno prima Davis gli offende la moglie che faceva del suo meglio in un pub.
Un uomo cupo, solo, rimasto da solo alla fine, solo.
Bravo Eretico, ti sei “dimenticato” della giornata del ricordo delle foibe. Ecco, per tutti quei morti e perseguitati, nonché per i tuoi lettori, un articolo che è tutta verità. Buona lettura a tutti.
10 febbraio è la Giornata del Ricordo, festa solenne nazionale Italiana , istituita con la Legge 30 marzo 2004, per commemorare le Vittime dei massacri delle foibe e l’esodo Giuliano – Dalmata.
Non tutti sanno, oppure non tutti vogliono ricordare quello che dal 1943 al 1947 accadde a Trieste, a Gorizia e in Istria, a migliaia di Cittadini Italiani, per mano dei partigiani comunisti e delle truppe Jugoslave comandate da Josip Broz, noto come il Maresciallo Tito.
Fu una pulizia etnica da fare invidia, per metodi e crudeltà, ai Nazisti. Torture e violenze di ogni tipo, su donne, bambini, vecchi e adulti, militari del Regio Esercito Italiano, Carabinieri, Finanzieri, colpevoli solo di essere Italiani.
Il vertice degli infoiba menti, si ebbe nel 1945, con il disfacimento del regime repubblicano e con il tracollo delle formazioni armate Repubblichine che tutelavano le popolazioni civili dagli attacchi dei Titini del famigerato IX Corpus che esibivano un feroce odio di carattere etnico – ideologico.
Le persecuzioni continuarono, violentissime e sanguinarie, sino al 1947, per eliminare fisicamente ogni Italiano dalla futura Federazione Jugoslava, che era organica al blocco sovietico.
Il metodo usato era quello delle foibe, cavità carsiche di origine naturale con un ingresso a strapiombo. È in quelle voragini dell’Istria, che fra il 1943 e il 1947 furono gettati, sia morti che vivi, quasi diecimila italiani.
La prassi era questa : i partigiani Titini, rastrellavano nella notte, nei centri abitati gli Italiani, dopo averli picchiati, torturati e depredati, li conducevano in fila indiana, verso le foibe che erano sulle alture circostanti , dopo avergli legato i polsi dietro la schiena con del filo di ferro in una catena umana.
Giunti all’imbocco della foiba, sparavano ai primi della fila che precipitavano in basso nel precipizio, trascinando con sé tutti gli altri. Le foibe erano profonde minimo venti metri . Non c’era alcun scampo per gli infoibati. Fatto questo, uno dei boia gettava una bomba a mano nell’orrido per finire eventuali superstiti e come gesto scaramantico gettavano una carogna di un cane nero, per impedire alle anime dei morti di risalire a perseguitare gli assassini.
Pochissimi furono quelli che riuscirono a salvarsi, ma qualcuno ci riuscì e raccontò quello che era accaduto. Anche numerosi partigiani Italiani e soprattutto non comunisti, furono eliminati nello stesso modo.
Negli anni seguenti, le foibe in territorio Italiano, furono esplorate per dare una cristiana sepoltura a questi poveri resti, sul fondo di esse furono trovati cumuli su cumuli di corpi di persone , morte fra atroci sofferenze nel buio di questi precipizi.
Ma non è finita. Nel febbraio del 47, fu ratificato tra Italia e Jugoslavia il trattato di pace: Istria e Dalmazia vengono cedute ufficialmente alla Jugoslavia.
Quasi mezzo milione di Italiani fuggono in Italia, da questi territori e soprattutto dal terrore di essere infoibati o internati nei gulag di Tito. Questi esuli, abbandonano in mano Jugoslava tutto : case, soldi, terreni, lavoro, aziende.
Tutti i loro beni vengono requisiti dalla Jugoslavia, come i Nazisti fecero con gli Ebrei.
La cosa vergognosa fu il silenzio che il PCI adottò verso questa immane tragedia, ma non solo i Comunisti Italiani furono omertosi, anche la classe dirigente della DC non diede la necessaria rilevanza a questo esodo e non approfondì le atrocità delle foibe. Molti pensarono ad una leggenda metropolitana mentre era una terribile realtà.
Per quasi cinquanta anni , un colpevole silenzio coprì in Italia questa spaventosa vicenda che grida vendetta a distanza di tanti anni e che è bel presente nella mente e nell’anima di chi subì questa pulizia etnica.
Finalmente il 10 febbraio del 2005 il Parlamento Italiano , dopo tante esitazioni, ha dedicato la giornata del ricordo ai morti nelle foibe e ai profughi Istriani e Dalmati.
Inizia , tardissimo, un percorso di rielaborazione teso alla ricerca della Verità di una delle pagine più dolorose della nostra Storia.
Roberto Nicolick
Bravo Edoardo! Occorre essere equlibrati e non guardare il mondo, e la storia, con il prosciutto negli occhi, volontariamente oscurati dalla faziosità.
Chissà? Forse fra qualche decennio anche i nipoti dei nostri grandi senesi del PD che tanto male hanno fatto alla città, bruciando il futuro di generazioni di giovani, riusciranno a fare autocritica.
Certo le due cose non sono neppure lontanamente paragonabili. Nel primo caso stiamo parlando di una vera e propria tragedia umana, nel secondo “soltanto” di aver dilapidato un patrimonio di miliardi di euro per seguire pedissequamente gli ordini che venivano da Roma e privilegiare le proprie posizioni personali e quelle degli amici.
E, purtroppo, grazie anche a parte dell’opposizione che si è vergognosamente venduta, non si è riusciti ad aprire alcun cassetto e sempre gli stessi continuano a comandare e a sfruttare la situazione. Ma tanto c’è Siena capitale europea nel 2019 e si rifarà l’ospedale!
“Di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini dell’Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani”
Benito Mussolini, 1920.
Caro Anonimo, noto che ti piace essere criptico non solo per te( infatti non sveli le tue generalità) ma anche per Mussolini: infatti non riporti il giornale dove il Duce avrebbe scritto quel suo pensiero. Non è che lo hai inventato te o qualcuno dei tuoi amici? Se, comunque, volevi istillare il dubbio che gli Jugoslavi avevano ucciso perché in precedenza erano stati maltrattati dai fascisti, ecco un articolo che ti mostra di quale pasta sono, tutt’oggi, fatti quei ” tipetti” che il tribunale dell’Aja ha processato per crimini contro l’umanità.
BALCANI Le violenze sistematiche a fini etnici per la prima volta riconosciute tra i delitti più gravi. Alla Corte dell’Aja pene dai 12 ai 28 anni. Gli stupri serbi crimine contro l’umanità. Condannati tre miliziani della guerra in Bosnia: infierirono sulle donne musulmane . Antonella Mariani
Era l’alba del 3 luglio 1992. A Foca poteva essere una bella domenica di sole; fu l’inizio di un incubo. Le milizie serbo-bosniache entrano nella piccola città nella Bosnia sud-orientale, quarantamila abitanti, metà serbi, metà musulmani. I secondi vengono incanalati verso diversi centri di detenzione. Le donne sono separate dagli uomini e trasferite con i figli nelle baracche del vicino cantiere della diga di Buk Bijela. Per centinaia di esse inizia la discesa all’inferno. Il primo pretesto per le violenze è «l’interrogatorio»: quattro serbo-bosniaci (uno di essi, Zoran Vukovic, è stato condannato ieri a 12 anni) iniziano a fare domande alle prigioniere, con il pretesto di individuare alcuni musulmani che si erano dati alla fuga la notte prima. Ma il vero obiettivo è un altro. Se ne rende conto per prima quella che per la Corte dell’Aja è la testimone Fws-75. A metà interrogatorio un miliziano la porta nella stanza accanto, perché secondo lui non rispondeva in modo adeguato alle domande. La attendono dieci soldati; tutti la violentano. Subito dopo tocca a Fws-87, 15 anni, «interrogata» da quattro uomini. Il calvario prosegue nella scuola di Foca, dove vengono trasferite 70 donne. Ogni sera arrivano gruppi di soldati: le ragazze sono «a disposizione». Chi deve proteggerle, la polizia municipale di Foca (la sede è a pochi isolati da un altro lager, il Palazzetto dello Sport) partecipava allo sfregio. Il capo della polizia, Dragan Gagovic, è indagato dal Tribunale dell’Onu, ma è ancora libero. È la «de-umanizzazione» di coloro che i serbi considerano nemici, i musulmani, il voler umiliare un’identità, una religione, calpestando la dignità stessa di persona. Un clima cupo e disperato, in cui anche uomini qualunque come i tre condannati ieri, individui «senza un passato criminale» – sono parole della presidente della Corte dell’Aja, il giudice Florence Ndepele Mumba – si trasformano in animali senza cuore. Tutto questo dura fino all’inizio di agosto: le ragazze più giovani in seguito sono trasferite in case private di Foca, gestite come bordelli «riservati». Qui rimangono fino al febbraio del 1993, in balìa di decine di uomini che le usano a piacimento, quando sono vendute in marchi a soldati montenegrini che tornavano in patria. Kunarac, condannato ieri a 28 anni, stuprò decine di volte alcune prigioniere bosniache, prima nei lager di Foca, poi nelle case dove lui stesso le aveva trasferite per i suoi soldati. Kovac e Vukovic fecero altrettanto, in due appartamenti di loro proprietà. Il primo non ebbe pietà di una 12enne, il secondo violentò una 15enne, stessa età della figlia. Tutti casi descritti uno per uno, elencati giorno per giorno nel verdetto pronunciato ieri all’Aja. Lo stupro come arma di guerra fu un sistema largamente utilizzato durante il conflitto in Bosnia. Nel 1993 una commissione dell’Unione Europea ha stabilito che 20 mila donne furono violentate. Il governo bosniaco parla di 50 mila vittime. Oggi di tutto questo resta solo un oceano di sofferenza. Molte donne sono rimaste incinte, perché anche questo era lo scopo delle violenze, far partorire figli serbi a donne musulmane. Alcune hanno abortito, alcune hanno dato alla luce i bambini. Molte vivono in centri di riabilitazione per profughi, con gravi disturbi psicologici e di frequente anche con danni ginecologici permanenti. E Foca non esiste più. Il suo nome è stato cambiato in Srbinje, un nome serbo perché territorialmente la città appartiene alla Repubblica serba di Bosnia (Srpska). Uno degli obiettivi dei miliziani era di ripulirla etnicamente. E ci sono riusciti: a Srbinje oggi non vive più un solo musulmano. Antonella Mariani
Cortesemente puó rispondere a questa domanda con un semplice si / no:
si considera fascista?
No